Alabianca

Il solito rompicoglioni, direte.

Sbagliando, perché Jannacci è sì un rompicoglioni, ma insolito.
Così insolito da sembrare unico

nel panorama della canzone italiana.
Viste ai suoi concerti persone non anziane commuoversi per canzoni che hanno quarant’anni sul groppone, ho deciso che aveva ragione lui, prima cosa, e poi che canta meglio adesso di quarant’anni fa, seconda. Ha più voce, quando si decide a tirarla fuori e non indulge al recitato, talvolta necessario (sentite le due parti di quel gioiello che è "La costruzione"). Ha più consapevolezza del ruolo, il soldato Jannacci. Non è un pirla, sa fare di conto. A difendere la sua trincea (la sua gente) sono sempre di meno. Qualcuno è morto, amen, ma tanti sono passati dall’altra parte. Le scarpe da tennis le portano anche i ricchi, non è più solo roba da barboni. Oggi per andare all’Idroscalo il barbone salirebbe su un Suv, ma per molti ci vogliono sempre due tram per arrivare in piazza del Duomo, e l’avvenire resta un buco nero in fondo al tram per i ragazzi obbligati alla precarietà, con un presente magro e un futuro vago. Il meglio di Jannacci è quasi sempre il peggio di Milano, della fatica di vivere, dell’umiliazione di sopravvivere, del non avere voce, ed è qui che arriva lui ("Ohé sun chì") con l’allegria del naufragato che è poi la totale serietà del clown, del saltimbanco, del medicastro e del poetastro. La sua voce (questa è una sensazione mia) ha più forza in quanto consapevole di esprimersi per conto di altre voci, quelle che non ci arrivano perché siamo distratti o di fretta, o perché partono da troppo distante (a Milano il troppo distante è anche mezzo metro, tenerne conto) e poi si sa che la vita l’è bela, che la ruota gira (sì, ma sempre dalla stessa parte) o perché si è deciso (da qualche altra parte, in alto) che non contano. Se non contano, tanto meno raccontano o cantano.
Più o meno è da mezzo secolo che l’inveterato ma pur sempre insolito Jannacci rompe i coglioni raccontando e cantando. E vogliamo tenercelo caro, come tutti i mammiferi in via d’estinzione, perché senza metterla giù tanto dura sta facendo canzoni politiche da una vita. Più musicista di tanti, stimabili, degli ex Dischi del Sole. Più padrone della scena (da quando ha i capelli bianchi). Ma sempre controtendenza, contro vento. Contro. Non sto parlando di un guerrigliero al pianoforte, ma semplicemente di un uomo che si guarda intorno senza paraocchi e paraorecchi. Perché ci vuole orecchio, ma non solo.

Questo doppio cd, tutte le canzoni riarrangiate da quel mostro di Paolino J, comprende alcuni inediti, un "Bartali" messo in piedi dall’Avvocato e dal Dottore (una versione sbilenca, per divertirsi, a mezza via tra il salmodiare dei frati e l’asincronia degli ubriachi) e, cosa che vale un grazie sentito da parte mia, "Dona che te durmivet", amara canzone protofemminista, con la sorpresa della traduzione in italiano. Che non sciupa l’atmosfera della latteria (quante ce n’erano, quante ne sono sparite), ma continuo a pensare che manasc suoni meglio di grosse mani e, come studioso dei testi jannacciani, mi tocca rilevare che per motivi metrici i cinque anni d’amore (tant el gh’è pu) sono diventati tre. Non importa, inscì ‘vèghen si dice a Milano.

A questo punto, può risultare superfluo chiedersi perché Jannacci rompa i coglioni da mezzo secolo. Non so lui, che comincerebbe a parlare di arterie e valvole, ma io una risposta ce l’ho. Perché ha intuito allora (adesso ne è certo) che questa è la strada più breve per arrivare al cuore.

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